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INDIA DIARIO FULVIO

 INDIA: LADAKH E KASHMIR IN FUORISTRADA
         

La vita è un ponte, non costruitevi sopra alcuna dimora. È un fiume, non aggrappatevi alle sue sponde. È una palestra, usatela per sviluppare lo spirito, esercitandolo sull’apparato delle circostanze. È un viaggio: compitelo e procedete! (Buddha)

Un percorso attraverso il Nord dell’India è un itinerario anzitutto spirituale, attraverso terre segnate dalla presenza della religione. Dal Kashmir, sconvolto da una lunga guerra e ancora al centro di tensioni, una regione di grande bellezza ancora completamente militarizzata e a forte impronta islamica, si passa nel giro di pochi chilometri, ma duramente conquistati, percorrendo strade al limite della praticabilità, al pacifico Ladakh, in mezzo alle montagne dell’Himalaya, una regione dall’energia inesauribile, capace di stupire anche il più sgamato dei viaggiatori per la sua carica di luce, di aria e di acqua, per i suoi templi incastonati nelle rocce e i suoi cieli tempestati di stelle. E poi, attraverso la transhimalayana, una delle strade più dure e spettacolari del mondo, eccoci in un balzo in Himachal Pradesh, Stato che ha accolto il governo tibetano in esilio, in cui il buddismo si è giustapposto armonicamente alle radici induiste, dove la montagna ancora alta sa già di giungla, con palme cresciute a fianco degli abeti, pini accanto a piantagioni di tè. A chiudere, da Daramshala, la picchiata verso la pianura: ecco il Punjab e la sua indiscussa capitale, Amritsar, splendente del Tempio d’oro della religione Sikh, che sincretizza molti aspetti delle altre confessioni prevalenti in India, il paese di 360 milioni di dei.

1.

Delhi-Srinagar

L’autista con la sua Ambassador bianca e lucente è venuto a prenderci presto, stamani. L’aeroporto non è lontanissimo, ma il traffico è così intenso che trascorriamo interminabili minuti assolutamente fermi, assediati da moto e auto che sembrano non volerci lasciare andare più. INDIA: LADAKH E KASHMIR IN FUORISTRADA

Sul volo per Srinagar siamo gli unici turisti europei, infatti all’arrivo ci fermano subito per i controlli dell’influenza. Compiliamo un’autocertificazione: si fidano.

Srinagar, Kashmir indiano. È l’ora di pranzo, i ragazzi escono dalle scuole. Sui pulmini colorati invocazioni ad Allah scritte in arabo. “Benvenuti in paradiso” è l’augurio di un cartellone pubblicitario. Il paradiso della corte Moghul, negli ultimi anni trasformato in un inferno di guerra, la terra contesa tra India e Pakistan, India e Cina. In questi sei mesi il tempo è buono, ma fa caldo, troppo anche per loro. Le scuole sono aperte e gli artigiani lavorano. Nei restanti sei mesi invernali il freddo stringe tutto in una morsa. Chi può si rifugia a Jammu, dal clima un po’ più mite.

Il traffico è caotico e polveroso, ma le montagne intorno sono verdi e appena scivoliamo sull’acqua del lago Dal magicamente tutto si fa silenzioso. Graziose houseboat, le case galleggianti, sono dappertutto, blandamente appoggiate sull’acqua. Di legno scolpito, ombreggiate da tende di cotone, rinfrescate dal fruscio dei ventilatori. La corte Moghul si trasferiva qui durante la stagione calda. Shah Jahan fece costruire i giardini più belli chiamando migliaia di artigiani dalla Persia. Infatti è come fare un tuffo in Iran non appena si varcano i cancelli dei giardini Nashir: fiori freschi e pieni, alberi secolari, fontane, ruscelli e piccole cascate che scendono dai terrazzamenti. Sui prati verdi la gente siede all’ombra circondata dal profumo di mille fiori: dalie, rose, gladioli. L’acqua è fresca e invitante, qualcuno inizia a risalire la collina camminando scalzo nelle fontane, in un batter d’occhio i saree si bagnano e le donne si rinfrescano sotto le cascatelle, i bambini si spogliano e si tuffano per una nuotata improvvisata sotto gli occhi divertiti degli adulti.

Nel giardino Nasim Bagh non si riceveva il pubblico, era riservato alla corte e ancora adesso fontane, colonne e soffitti decorati sono originali, risalgono al XVI secolo.

Alla sera, sul lago, i rumori si attutiscono. Odore di cibo grigliato lungo la strada, carne, pannocchie. Il profilo di un pescatore si staglia contro il sole che tramonta. La luce cala in fretta e si sente solo lo sciabordio dei remi a forma di cuore che solcano l’acqua, le barche strette e piatte scivolano silenziose fra campi di fiori di loto.

(Mahjong Group of House Boat, Dal lake, Neru Park, Srinagar, Tel: 0194 2455300)

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Srinagar

Alle cinque del mattino il muezzin sta cantando le sue preghiere da un bel po’. Saliamo su una piccola shikara che ancora non è spuntato il sole. L’aria è fresca. Anatre e folaghe escono dai nidi con i loro pulcini. I fiori di loto dritti sui loro steli sono ancora chiusi. Sulla “piazza”, se così si può chiamare uno specchio d’acqua più largo dei canali, c’è il mercato della verdura. Piano piano la luce illumina i volti scuri irti di barba di agricoltori e commercianti che si danno appuntamento qui ogni mattina sulle loro barche cariche di verdure. Scivolano, si urtano, si scansano, pesano melanzane su enormi stadere, passano sacchi di ortaggi da una barca all’altra. La contrattazione si fa accesa tra un giovane e un anziano, interviene un terzo uomo a cercare di riportare la calma. Una voce: “I’m the delicious man”. Una barca ha affiancato la nostra: l’uomo delle delizie apre due bauli ricolmi di dolci, biscotti e pasticcini di ogni genere. Il mercato è così affollato che si potrebbe camminare sulle acque semplicemente passando da una barca all’altra. Conclusi gli scambi ognuno andrà in città a vendere la sua merce, al mercato, sulla terraferma.

La città di Srinagar, il paradiso del Kashmir, un tempo era abitata da induisti, buddisti e musulmani, come testimonia la Jamia Masjid, le cui cupole erano originariamente dedicate alle tre religioni. Adesso è frequentata solo dai musulmani. La politica e le mire espansionistiche dei paesi confinanti hanno compiuto il disastro. Terra contesa tra India, Pakistan e perfino Cina, è stata teatro di scontri sanguinosi, che hanno coinvolto una popolazione multiconfessionale, vissuta fino a quel momento in pace. Una guerra civile. Ma si sa come vanno queste cose. Adesso recuperare è difficile e la tensione strisciante si percepisce dalla presenza di piccoli presidi militari avvolti nel filo spinato a ogni piè sospinto: i soldati armati appena visibili dietro le piccole fessure imbracciano fucili carichi. La moschea Shah Hamdan ricorda dall’esterno un tempio induista in stile nepalese, è tutta di legno e le decorazioni sono fatte in papier machie, uno speciale impasto ottenuto triturando carta e fibra di cotone, i piccoli disegni ricordano le decorazioni stile Fabergé.

Il caldo si è fatto quasi insopportabile, un evento raro da queste parti. Verso sera saliamo sulla shikara dalle tendine variopinte, che scivola sul lago tra i fiori di loto ormai aperti al sole. Uccelli acquatici zampettano sulle enormi foglie galleggianti, dove si depositano rotonde gocce d’acqua a formare enormi perle che luccicano al sole. I canali, dapprima larghi, si restringono; zolle di terra galleggianti offrono erbe per gli animali, che le donne raccolgono e portano a riva remando agilmente. Ci sono nate su queste barche. Inaspettatamente compaiono orti su isole galleggianti, verdure mature pendono dai graticci, fagiolini, zucche saporite. Dalle casette in mattoni escono bambini e donne affaccendate intorno alle loro barche, vanno a fare la spesa, ritornano, si fermano in mezzo ai canali a chiacchierare. Un vecchio con lo zuccotto bianco confeziona mazzi di fiori di loto che regala ai turisti, ha il viso sereno. Ceniamo ancora una volta sulla houseboat. Il capitano, Majid, è avaro di sorrisi, ma è molto gentile. Dopo cena ci consegna un grande libro dove ci chiede di scrivere anche i nostri commenti. Che cosa augurargli se non un futuro di pace?

 

 

3

Srinagar-Kargil

Oggi è venerdì, giorno santo dell’Islam, e domani è la festa dell’Indipendenza dell’India. Questa circostanza ha un suo peso nella nostra sveglia con due ore di anticipo. La shikara ci riporta sulla terraferma quando ancora non c’è nessuno in giro. La guida che ci attende è di Leh, ha i lineamenti mongoli e parla ladakho, una lingua diversa dal kashmiri. Partiamo prima, ci spiega, perché potrebbero esserci problemi a causa dell’Indipendence day. Qui è vissuto come un insulto, anche perché è da quel momento che sono iniziati i problemi. Per strada sembra che nulla sia cambiato rispetto a ieri. A una cert’ora i bambini si riversano per strada con le loro divise scolastiche e i libri sottobraccio, i soldati presidiano le strade, c’è un armato ogni 200 metri. Non sembra debba succedere nulla. Ci fermiamo al mercato di Kangan a comprare le famose mele del Kashmir, più grosse e dolci di quelle ladakhe: l’autista le apprezza molto. La vegetazione è ricca in questa zona, iniziano a scorrere le acque provenienti dai ghiacciai che alimentano i fiumi nelle vallate coltivate a grano e fiori. Nomadi kashmiri con greggi di pecore percorrono le loro strade, le facce scure, i vestiti cupi e polverosi. Si accampano nei pascoli con le loro tende, i bambini si avvicinano a cercare qualcosa da mangiare, penne e anche vestiti. La strada, da larga e spaziosa, inizia a farsi stretta e sassosa e sale.  Sembra impossibile, ma è a due corsie e gli automezzi sono camion. Lasciamo la vegetazione della vallata e iniziamo ad arrampicarci su queste rocce: una, due, tre curve e tutto si ferma, gli automezzi pesanti si incastrano nelle curve a gomito e non riescono più a muoversi. Operai dalle facce scure, originari dell’India dell’est, lavorano all’allargamento della strada: unico strumento, i picconi. Andiamo avanti così finché svalichiamo. Siamo a oltre 3800 metri, l’aria è fina, fresca. Le fisionomie kashmire si mescolano a quelle ladakhe, ancora moschee dai tetti lucenti di lamiera: ecco il villaggio di Drass, il secondo più freddo dell’Asia: -50° d’inverno! Il fiume è diventato grigio e impetuoso, colore del ghiacciaio e della roccia. Poi si scende, ritorna il caldo. Arriviamo a Kargil nel pomeriggio, siamo stremati dalla calura e dal percorso sconnesso. A sera, sulla strada in costa al monte, file di camion continuano il loro andare e venire.

(D Zojilla Hotel, tel.: 01985.23222, 232360, servizi basici, non molto pulito, letti durissimi, è il migliore nella zona)

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Kargil-Leh

Un modo per convivere pacificamente si può sempre trovare, anche in queste terre contese. La nostra guida, Rinchen, è buddista, l’autista musulmano, ma il primo ha alcuni parenti di fede islamica, il secondo ne ha buddisti: per loro l’accettazione reciproca è un dato acquisito, scontato. Rinchen sostiene che se l’India durante il conflitto non avesse inviato le truppe speciali in Kashmir – che hanno fatto quello che hanno voluto della popolazione musulmana – probabilmente adesso non ci sarebbe questa tensione. La storia va sempre guardata dalle due parti e il punto di vista di Rinchen è terzo: di lui ci fidiamo.

Mentre parliamo di queste amare vicende sfilano sotto i nostri occhi montagne e valli, e nelle valli verdi come oasi spuntano moschee simili a chiesine di montagna, poi via via compaiono lungo la strada crocicchi di monaci buddisti, fino all’arrivo al monastero di Mulbec, dove una grande ruota della Compassione a ogni giro completo libera in cielo un milione di preghiere. Il monastero è piccolo: solo due stanze. Nel cortile un gigantesco Buddha Maytreya scolpito nella roccia veglia sull’unico monaco che si affaccenda intorno alle lampade votive. Aggiunge olio, pulisce, riordina, custodisce i libri sacri con gli insegnamenti del Buddha.

Nella Valle della luna spezzata sorge invece il monastero di Lamayuro. Nel cortile un vecchio arrampicato su una scala rinnova i colori della ruota della vita, mentre all’interno i monaci pregano e cantano al ritmo del tamburo e dei corni. Tra loro ce n’è uno dalla lunga barba e dai capelli raccolti sulla nuca: proviene da un lungo periodo di meditazione, caratteristica di questo monastero. Fuori alcuni vecchi muovono incessantemente le loro piccole ruote di preghiera, i visi solcati di rughe profonde.

Pranziamo lungo la strada, in un giardino che sembra davvero un angolo di paradiso: il sole filtra tra i rami di albicocchi carichi di piccoli frutti tondi e dorati. Le vecchine li vendono ai vari chek-point dove si fermano le auto dei turisti per il controllo passaporti. A noi le ha offerte un’anziana, in cambio di una maglietta: sono dolcissime.

Siamo ormai prossimi a Leh quando incontriamo il monastero di Alchi. Diverso da tutti gli altri, le sue piccole cappelle sono disposte tutte su un unico piano, non ci sono scale e le colonne sono sormontate da capitelli in stile ellenistico. Ma anche questo, in fondo, non è strano: quanti popoli hanno percorso queste vie in cerca di fama e fortuna? Alessandro Magno si è fermato con il suo esercito non lontano di qui, lungo l’Indo.

La strada prosegue scavata nella roccia, nelle valli si aprono oasi di verde, coltivazioni di orzo e foraggio. Il villaggio di Bazgo visto dall’alto potrebbe trovarsi tranquillamente in Marocco o in Tunisia. Ci fermiamo a bere un tè con la nostra guida, persona eclettica: esperto d’informatica laureato a Bangalore, ma anche traduttore di oracolesse, nipote devoto della vecchia nonna che lo ha cresciuto da sola. La strada prosegue: all’imbrunire, in fondo alla valle, compare l’Indo alla confluenza con lo Zanskar, si vedono nettamente le acque mescolarsi. A sera siamo a Leh. Salutiamo Rinchen e ci riuniamo al resto del gruppo. Ci accoglie con un largo sorriso Aman, la nostra guida sikh.

(Dragon Hotel, tel.: 01982.252139,  252720)

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Passo Khardungla-valle di Nubra

Lasciamo Leh alle 8. Le jeep si arrampicano sulla consueta strada scavata nella roccia. Operai appena svegliati si lavano accosciati su un ruscello che proviene direttamente dalla montagna. Una lunga fila di camion dell’esercito procede inerpicandosi lentamente. In breve la strada sale: 4000, 4500. Ecco il Khardungla, il passo più alto del mondo: 5600 metri! Scendiamo dalle jeep camminando come ubriachi, le lingue dei ghiacciai si spingono fino a lambire le bandierine di preghiera, di fronte si stagliano le vette nere e innevate del Karakorum. La strada ricomincia a scendere, curva dopo curva. Le rocce cambiano colore, a tratti sembrano ossidate. Teneri fiorellini viola spuntano qua e là sfidando il freddo. Yak dal pelo folto brucano le poche erbette spuntate a fatica tra le pareti scoscese dei monti. Pranzo al sacco. Una famigliola si avvicina, dividiamo con loro quel che abbiamo: i bambini apprezzano molto la frutta, gli adulti i vestiti, anche se sono usati. Non capiamo nulla di quello che ci dicono, ma sembrano benedizioni.

Proseguiamo il tragitto, siamo scesi di parecchio e siamo entrati nella Valle di Nubra. Ampia, con il cielo grigio assume un colore quasi lunare. Si allarga e l’Indo, che vi scorre in mezzo, si divide in un braccio laterale per poi ritornare al ramo principale subito dopo, creando così una sorta di grande isola montuosa. Le rive sono di sabbia bianca. Siamo arrivati al monasteri di Dishket, arrampicato su un costone. Le ruote di preghiera ormai vecchie girano sventolando brandelli di carta scoloriti. La prima cappella è dedicata agli dei protettori, i cui volti coperti vengono svelati solo due volte all’anno, in occasione di particolari preghiere. Nella sala grande le finestre affacciano sull’Indo che scorre instancabile, sempre uguale e sempre diverso. Un grande Buddha Sakyamuni sorride serafico dalla teca illuminata da lampadine colorate. Qualche scalino ancora ed ecco la cappella degli Arhat, spiriti illuminati da sempre degni di devozione.

La strada si abbassa fino al livello del fiume, dove bianche dune di sabbia raccolgono piccole pozze di acqua. Il panorama è lunare, il fiume scorre grigio e lucido come una lama d’acciaio. Piove. Nel piccolo monastero di Hundar un monaco seduto per terra prega: è così piccolo rispetto al grande Buddha del futuro che domina tutta la stanza. Le pitture sui muri sono in tipico stile cinese. Non è strano: da qui passava un tratto della Via della seta e le varie influenze culturali si fanno sentire. Appena fuori dal monastero, un sentierino tra gli arbusti, bordato da un torrentello vivace, porta a un giardino di stupa e gompa di fattura originale. Sulla collina sono sparse le celle di meditazione, ma un presidio militare impedisce l’accesso e vieta anche le fotografie.

L’ultima pioggia ha scurito le dune di sabbia bianca, i lavoratori tornano a casa con le zappe sulle spalle. Un gruppo di pastori ha radunato una mandria di cammelli battriani, ultimi esemplari, ricordo di un popolo e di una storia ormai confinata nei saggi e nei racconti che favoleggiano della via dei mercanti. Con le loro gobbe pelose, inclinate una a destra e l’altra a sinistra, attendono il pasto prima di essere condotti al riparo: i giovani esemplari corrono sulle dune, i vecchi, cocciuti, si impuntano seduti per terra, a dispetto dei pastori, che vorrebbero schiodarli. Per convincerli sputano sul loro muso, per ristabilire i ruoli.

Tutti lasciano la valle delle dune: chi torna a casa, chi si rifugia nelle tende. Cala presto il buio. Nel campo tendato, che ci attende in mezzo ai pioppi, per ogni luce che si spenge si accende un pezzo di cielo punteggiato di stelle.

(Tirith Camp Nubra Valley, tende confortevoli, letti puliti, bagni e docce calde, corrente elettrica,  ristorazione e box lunch soddisfacenti)

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Valle di Nubra

Passaggi di nuvole nel cielo azzurro, le tende bianche del campo sono sprofondate tra i pioppi. La strada è lunga anche oggi e ci condurrà fino a Pamanik. La vallata è larga, bianca e verde. Bianca la sabbia, verdi le poche coltivazioni. Intorno, quinte di montagne altissime, le vette innevate, i fianchi cangianti secondo la luce. Oltrepassiamo un ponte sul fiume Nubra che scorre rapido e a fissarlo sembra di essere catturati dalla corrente. Siamo sotto il costone roccioso: piccole cascatelle di acqua gelata e purissima invitano a un brindisi collettivo. Percorriamo con le jeep un tratto di sterrato sassoso fino ai piedi della montagna, poi iniziamo l’ascesa fino al monastero di Insa. Piccoli chorten costruiti con i sassi ammonticchiati ci scortano fino in cima. Il monastero è piccolo e vi abita un solo monaco, solo due volte all’anno lo raggiungono alcuni lama che si ritirano qui per la meditazione. Le stanze all’interno sono piccole e buie, con l’aiuto di una pila si riescono a vedere gli affreschi sui muri. Più in alto, altri chorten in muratura e lo scheletro del vecchio monastero in pietra. Sotto, la valle di Nubra, ampia e bianca. Costruiamo anche noi piccoli chorten con le pietre e li lasciamo quassù, a contemplare le montagne himalayane. Scendere dal sentiero ripido non è complicatissimo. Il sole va e viene, celato dalle nuvole ora soffici e candide, ora grigiastre e gonfie di pioggia. Più avanti nella valle, ecco nascosto tra le cime più basse un piccolo lago di acqua piovana. La roccia è scura, violacea, l’acqua tranquilla. Chiudere gli occhi e sentire lo sciacquettio delle piccole onde, lasciarsi attraversare dalla brezza fresca che increspa la superficie del lago. Poi il venticello si ingrossa, fino a diventare forte e ghiacciato, porta il respiro delle montagne; e in un istante percepire di essere in unione perfetta con l’energia dell’universo. Ecco perché il buddismo è nato qui e, come dice il Dalai Lama, qui va praticato.

Più in basso il vento alza nuvole di sabbia bianca. La valle di Nubra sembra quasi irreale. Le nuvole scherzano con i profili delle montagne, disegnando zone di luce e ombra, mutandone continuamente la fisionomia. Lungo la strada che riporta al campo incontriamo pastori, bambini che tornano da scuola: tutti ci regalano un saluto, un sorriso.

Al campo il profumo della menta annuncia il tè caldo e zuccherato servito sotto un cerchio di pioppi. Il vento non ha smesso di soffiare, le foglie lanciano bagliori di luce misti a suoni. Quale palcoscenico migliore per parlare di buddismo?

 

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Valle di Nubra-Leh

La luce filtra presto nelle tende al mattino. Il vento ha interrotto la sua corsa, i pioppi hanno smesso di cantare e le nuvole passeggiano nel cielo. Quando entriamo nella saletta per la colazione è tutto deserto, non una tazza né un pezzetto di pane. Ci fanno segno di passare attraverso una porticina, poi un’altra ed eccoci in una grande cucina. Nel mezzo la stufa crepita e tutto intorno sono disposti panini rotondi e gonfi, le stoviglie lucidate riposte nelle credenze, piccoli tavoli dipinti sono stati apparecchiati per noi. In una stanzetta il toc-toc di una donna che sta facendo il burro a mano, lievemente salato, che va a sciogliersi nella coppetta di tè, offerta assieme al pane caldo.

Ripercorriamo a ritroso la valle di Nubra per raggiungere nuovamente il passo di Khardungla. Ha nevicato gli scorsi giorni e ancora cade un nevischio sottile e pungente. Un lungo convoglio dell’esercito blocca la strada sterrata, rallentando la nostra marcia e costringendoci a una sosta più lunga del previsto al passo. Una tazza di tè speziato ci aiuta a ingannare il tempo e ci riscalda un po’. Finalmente i camion si muovono e possiamo riprendere la strada verso Leh.

Appena fuori dalla città c’è il monastero di Thikse. Ospita attualmente una scuola con 16 bambini e 120 monaci in totale. Domina la valle coltivata. Nella sala della preghiera i monaci stanno intonando un canto, la luce è bassa, solo un mandala fatto di sabbia fina è illuminato. Statue del Buddha e manifestazioni tantriche solo apparentemente spaventose. Nel tempietto di fronte al cortile, una grande statua del Buddha del futuro sorride pacifica guardando la vallata attraverso le grandi finestre di legno. È talmente alta che la si può cogliere per intero solo dal secondo piano. Accanto, in una piccola sala, graziose statue rappresentano le Tara, manifestazioni femminili del Buddha. Allontanandosi lungo la strada si può osservare come il monastero di Thikse rappresenti, in piccolo, il Potala di Lhasa.

Su una costa del monte, tornando in direzione di Leh, c’è il Palazzo Shey. Il breve percorso per raggiungere la cima è fiancheggiato come sempre da ruote di preghiera che girano incessantemente sotto le mani dei fedeli. Ha un unico grande cortile su cui si apre una stanza, che permette di accedere al secondo livello, a guardare direttamente negli occhi la statua del Buddha del presente, Sakyamuni. Da quassù il vento sembra soffiare impetuoso e i deboli vetri del palazzo tremano.

Leh si anima verso sera. Le botteghe che fiancheggiano le vie della città vecchia luccicano di argenti e pietre, vestiti e sciarpe. I commercianti vengono dal Kashmir soprattutto in estate per concludere affari con i turisti. I tibetani invece gestiscono i loro commerci un po’ fuori dal centro. Qui ci sono solo donne sedute sui marciapiedi a vendere frutta e verdura. Cani randagi sonnecchiano in attesa di cibo, che qualcuno sicuramente gli darà. Alzando gli occhi, un fitto intreccio di bandierine di preghiera e cavi della luce solca il cielo, impigliandosi nella prospettiva di due moschee con i minareti illuminati. “Allah-u akbar” intona il muezzin, mentre svoltiamo in un vicolo del quartiere antico steso ai piedi del Palazzo reale. Qui i toni si smorzano, è una zona più intima. Piccoli bar, rivendite di frittelle, un barbiere. Poi le voci soffuse dall’interno delle case, chiacchiere quasi sottovoce. Ai piedi del palazzo la città piano piano si illumina, mentre cala la sera.

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Leh – monasteri Thag Thog e Hemis

L’aria è rinfrescata e, come accade da qualche giorno, nuvole bianche si contendono l’azzurro del cielo. Usciamo da Leh e imbocchiamo la vallata dell’Indo, ampia, coltivata e punteggiata di monasteri arroccati sulle montagne: Stachna, ovvero “naso di tigre” e Matho sono i più evidenti, gettando uno sguardo dai finestrini delle jeep. La vallata è piuttosto verde e via via che ci si avvicina alla prima meta si attraversano piccoli villaggi dalle case di mattoni dipinti a calce, sui tetti il foraggio messo a seccare. Ecco il monastero di Thag Thog, il suo nome significa “sotto la grotta” e lo si capisce appena si entra. Il contatto a piedi scalzi con il pavimento freddo dà subito un brivido. È buio, il soffitto basso e irregolare è tappezzato di monete e banconote. Ci sono altre due stanze, una antica con una bella collezione di offerte fatte di burro modellato e dipinto, l’altra nuovissima, anzi ancora da terminare: il pavimento di legno grezzo è da rifinire. I nomi delle statue, dei vari Buddha e delle sue manifestazioni, iniziano a sovrapporsi e a confondersi. Tutto sembra così complicato e con un filo di frustrazione stiamo rinunciando a capire, quando Aman viene in nostro aiuto e ci invita a non pensare a tutto questo. Le statue sono rappresentazioni, ma la Verità non è un dogma e ognuno deve ricercare la sua strada (la cima è una, ma i sentieri sono molti, diceva Tierno Bokar, il saggio di Bandiagara, ai piedi della falesia Dogon, in Mali).

Al monastero di Hemis forse comprendiamo qualcosa di più osservando l’affresco della Ruota della vita. Yama, il dio degli inferi, vi è avvinghiato. All’interno del cerchio sono rappresentati i sei mondi e le 12 stazioni della vita di un uomo. Al centro il “peccato originale” è interpretato da tre animali: un serpente, un maiale e un uccello. Rappresentano l’odio, l’ignoranza, la bramosia dei desideri. Solo liberandosi da questi si può uscire dal ciclo ghermito da Yama e un Buddha sereno e sorridente indica la strada verso la luna. Il monastero di Hemis è antichissimo, risale al VII secolo. Nel museo freddo e scarno c’è una raccolta di oggetti sacri e di utensili. Antiche ruote di preghiera sono incastonate nei muri, portano ancora tracce di pelliccia, sono piccole e un po’ acciaccate. Nella stanza più lontana e buia un monaco recita ininterrottamente un mantra battendo ritmicamente sul tamburo. La nostra presenza non lo distrae e quel suono, più o meno attutito, riecheggia in ogni angolo del monastero. Allontanandoci vediamo il complesso di edifici scomparire, celati tra le montagne.

Al castello di Leh ogni sera c’è una rappresentazione di danze rituali (ore 17,30, 150 rupie). Una piccola compagnia si esibisce per i visitatori stranieri proponendo coreografie delle regioni del Ladakh. Una ragazzina presenta ogni movimento leggendo gli appunti scritti in inglese su un quadernino. Il castello è vuoto all’interno, ma è un bello scenario per assistere allo spettacolo. Intanto l’aria si è fatta freschina, il sole va a tramontare. Ridiscendiamo attraversando il quartiere vecchio dove i tintori sono all’opera e i carretti vengono trainati senza sosta negli stretti vicoli. Al mercato, sotto il tendone, luccicano argenti e tintinnano vassoi colmi di turchesi. Nella via delle moschee un venditore di tappeti srotola i suoi tesori: vecchi thangka stropicciati evocano mandala, ruote della vita, manifestazioni del Buddha. Davanti a un qawa, tè caldo e speziato, ascoltiamo le sue descrizioni. Il Buddha della saggezza, Manjushri, che con la spada combatte l’ignoranza, ci sembra il più adatto: in tutte le epoche, ma soprattutto nella nostra.

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Leh-lago Tsomoriri (4950 m.)

Come la rugiada è asciugata dal sole del mattino così, alla vista dell’Himalaya, i peccati dell’umanità (Purana)

Rprendiamo la strada verso Manali, attraversando la Transhimalayana, una delle strade più spettacolari e difficili al tempo stesso. Le vallate che si susseguono a tratti sono verdi e larghe, altre volte strette e rocciose. I lavori per la risistemazione del fondo stradale e la costruzione di nuovi ponti sono attivi più o meno ovunque. Gli operai salutano sorridendo, rompono le pietre con il mazzuolo e il picchetto. Molte donne lavorano nei cantieri, il volto coperto da pesanti fazzoletti per difendersi dalla polvere. Si comincia a salire: la strada si perde e diventa una pista difficile da vedere, perfino da intuire. Laghi azzurri, cime innevate. Marmotte, una grande quantità di marmotte, e sempre più freddo. Arriviamo al lago Tsomoriri verso sera. Il villaggio è minuscolo, in parte disseminato di tende rotonde. Gli abitanti, di bassa statura, hanno la pelle come di cartone, cotta dal sole. Nel piccolo tempio di Kartzo c’è solo una stanza e un monaco che canta, battendo sul tamburo, la sua litania, indifferente a tutti quelli che entrano e si siedono per terra ad ascoltarlo. Intorno al lago, intanto, cala la sera e si alza un vento gelido, che ci costringe a camminare rapidi nonostante l’affanno dovuto all’altitudine, scortati da un gregge di capre e dal suo pastore. Ci rifugiamo in una delle tante tende rotonde. Un fornelletto a gas, sedili e coperte tutto intorno, la signora sta preparando un tè con il burro salato. Alcuni uomini rientrati dal lavoro siedono con noi, avvolti nelle coperte, recuperano un po’ di energie. Il tè ha il sapore di un brodo dal forte aroma di burro, sapido. Voci attutite, il rumore dei fornelli, l’odore di kerosene. Fuori passa rapido, nel buio quasi totale, il gregge belante. Due asini ragliano e scalciano. In questo momento questa tenda è il posto più bello del mondo.

(Tsomoriri Camp Himalayan, necessario sacco a pelo termico e abiti pesanti anche ad agosto, di notte la temperatura scende sotto 0°, wc e lavandino in tenda, acqua freddissima, cibo di buona qualità ma poca quantità, box lunch scarso)

 

 

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Tsomoriri – Sarchu

La temperatura si è abbassata notevolmente questa notte, siamo andati sotto zero. Ma sono stati soprattutto i cani randagi che non ci hanno lasciato dormire. Si sono accovacciati vicino alle tende e hanno guaito e ululato tutta la notte. Forse reclamavano solo un po’ di caldo.

Al mattino presto, il lago offre uno splendido controluce. Ripercorriamo la strada a ritroso. Nei prati le marmotte giocano, scendono verso il torrente a bere, si scaldano sui sassi. Prendiamo la deviazione verso il lago Tsokar coperto di uccelli acquatici. Tutto intorno bassi arbusti e una crosta bianca di sale che si sfarina a toccarla. È una tappa di trasferimento oggi, in mezzo a una conca di montagne e ghiacciai. La luce così trasparente, offuscata solo dalla polvere che sollevano le jeep, avvicina l’anima al cielo. Ogni tanto, lungo la strada, posti di ristoro dove prendere una zuppa calda o un piatto di noodles per sole 50 rupie. Come sempre tende circolari, fornelletto e panche basse sulle quali si può anche dormire. La fauna è tipicamente montana, caprioli e anche una sorta di zebra dal manto marroncino, con il corpo sottile e la testa grossa. La strada in sé non sarebbe lunghissima, ma è dissestata e impone una certa lentezza. Siamo ormai nella parte finale del Ladakh. All’ultimo controllo della polizia entriamo a Sarchu, che geograficamente è già in Himachal Pradesh. Non c’è nulla intorno: solo montagne, ghiacciai e il nostro campo tendato. La temperatura scende rapidamente. Nella tenda-ristorante Aman tiene una lezione sul concetto buddista di vacuità a un gruppo che sembra preparato più per una spedizione all’Artico che per una lezione di buddismo. Il cibo si gela nel piatto prima ancora di essere assaggiato. La notte è nera, il cielo solcato da una Via lattea maestosa. Nessun rumore stanotte, tranne il vento che scende dalle vette innevate.

(Rashpian Adventure Camp, servizi molto basici , necessari sacco a pelo termico e abiti pesanti, poco cibo a cena e ancora meno nel box lunch per carenza di rifornimenti, non ci sono centri abitati nelle vicinanze)

 

 

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Sarchu – Manali

I chilometri sono appena 220, ma l’ultimo tratto della Transhimalayana è davvero dissestato e non consente una marcia superiore ai 25-30 km all’ora. Partiamo alle 7. Le montagne sono ancora ammantate d’ombra, ma dalle vette filtrano i raggi del sole. Si sale, si sale, la vallata si allarga, brulla come sempre. Poi inizia la discesa. Compare un po’ di vegetazione e il profumo dell’erba ci stupisce, facendosi strada tra l’odore della polvere sollevata dai camion. La valle si restringe e diventa decisamente verde, falchi neri volteggiano sfruttando le correnti ascensionali. Squadre di operai lavorano senza sosta all’allargamento della strada, come sempre spaccando le pietre con i picconi, uomini e donne non c’è differenza. I lavori sono gestiti dall’esercito, ecco spiegato perché per ogni squadra c’è un soldato che controlla. Dal nostro punto di vista somigliano tanto a lavori forzati. Invece, a quanto pare, qui è normale e gli operai sono cittadini liberi, ma non dalla miseria.

La strada scende, risale, riscende. Manali ora è vicina, la vediamo spuntare nel fondovalle. Ma ecco un stop. Stanno asfaltando la strada. Gli operai, sempre uomini e donne assieme, riempiono secchi di catrame fumante, ottenuto bruciando i copertoni. Naturalmente ne respirano i miasmi per tutto il giorno. Caricati i secchi sulle spalle, li portano una curva più sotto. Improvvisamente si sente il pianto di un bambino. A guardare bene, buttate sull’erba ci sono alcune coperte e sopra c’è un neonato: avrà si e no tre mesi. La madre scarica l’ultimo secchio di catrame, poi si ferma per allattarlo. Il soldato di guardia al cantiere osserva con aria indifferente: le toglierà dieci minuti dalla paga? Il pensiero corre ai nostri asili e alla vita dei bambini in Occidente.

Passa ancora un po’ di tempo e la strada viene riaperta. Finalmente possiamo raggiungere Manali, località di montagna di una certa rilevanza, a giudicare dagli chalet che sono stati costruiti un po’ ovunque.

È arrivato il momento di salutare la nostra guida, Tsering, e gli autisti che ci hanno condotto fino qui attraverso una delle strade più spettacolari e difficili del mondo. Sono stati bravissimi: professionali, gentili e simpatici. Ci lasciamo non senza un filo di sincera commozione.

(Banon Resort, New Hope Orchards Manali, tel.: 01902.253026,  252490, 253994 Albergo molto confortevole)

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Manali

Dopo tanti giorni di sveglie antelucane, una bella dormita, finalmente. La cittadina di Manali è un po’ la Chamonix dell’Himachal Pradesh, che letteralmente significa “la culla dell’Himalaya”. Alberghi, costruzioni in mattoni, negozi. Gente un po’ meno d’incontro che altrove. Probabilmente è già un posto un po’ troppo turistico. Ma nascosta un po’ più in alto c’è la Manali vecchia, quella delle case di legno con i tetti coperti di lastre di pietra, a piano terra le stalle con le mucche e i panni appesi al balcone, che circonda la casa su tre lati. Lungo la strada un fiorire di botteghe di artigianato, bar e piccoli ristoranti. Dove finisce la strada c’è un tempietto dedicato a Manu. Di questo personaggio si racconta una storia con forti assonanze bibliche: pare avesse costruito un’arca e vi avesse posto in salvo tutti gli animali nel corso di un diluvio.

Manali è letteralmente sprofondata in una foresta di conifere dai rami gonfi e sani. Su una collina, in mezzo ad alberi secolari che profumano l’aria di resina, c’è il tempio induista Hadimba Devi, in cui sono conservate due impronte lasciate nella roccia. Una fila ininterrotta di fedeli entra dalla porta piccola e bassa, si sofferma un attimo, riceve la benedizione sottoforma di segno rosso spennellato sulla fronte e una manciata di dolcetti. Sul piazzale un uomo ha appena sacrificato una gallina e ora lava il coltello, riponendo i resti del pennuto in un sacchetto di plastica. Una signora in costume tradizionale si aggira lì intorno portando con sé una pecora dal pelo pulito e vaporoso, che suggerisce un’idea di morbidezza infinita: per poche rupie posa per una foto. Venditori di zafferano avvicinano circospetti i turisti mostrando piccoli contenitori degli stami preziosi, chissà perché i venditori di zafferano hanno tutti quest’aria un po’ ambigua. Cade qualche goccia di pioggia, ma è solo un momento. Ritorniamo indietro di qualche chilometro, sulla strada che porta a Leh c’è una deviazione per il piccolo villaggio di Vashisht, dove sgorga una sorgente di acqua calda intorno alla quale è stato costruito un tempio tutto di legno intagliato. I Sadhu dal viso dipinto raccolgono offerte e distribuiscono benedizioni, i turisti indiani posano per foto di famiglia di fronte al tempio. Nell’unica strada che attraversa il villaggio è un pullulare di botteghe di artigiani, incantatori di serpenti e locali. Il turismo occidentale che si attarda qui, come nella Manali vecchia, è costituito prevalentemente da giovani alternativi ben disposti verso quei ciuffi di erba dall’aria familiare e dal profumo caratteristico che affollano copiosi il bordo strada e il sottobosco dei parchi. Qui cresce tutto bene, tra le felci umide e fresche si stende un tappeto rigoglioso di marijuana (che pare di ottima qualità, ma non lo è).

Verso sera per le strade della Manali vecchia si spande l’odore del fumo, si aggirano ragazzi di ogni nazionalità. I sarti dei negozietti sono all’opera per cucire e ricamare ogni genere di abito e accessorio che in Italia spopola nelle varie Botteghe solidali e che qui costa pochi spiccioli. Nella zona nuova, invece, tutto è un po’ più dispersivo, rumoroso e anonimo. Rientriamo in albergo: questa sera ci aspetta il torneo di carron.

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Manali-Daramshala

Partiamo abbastanza presto stamani: come sempre la strada non è lunghissima, ma non si sa mai quali e quante interruzioni si possono incontrare. Non sono ancora le 8 e i piccoli villaggi cominciano ad animarsi. I cani si stiracchiano, le mucche brucano il fieno, gli alberi carichi di mele lasciano filtrare i primi raggi di sole. Dalle case di legno a due piani escono bambini incuriositi e intimoriti al tempo stesso dalla presenza di noi stranieri e donne dai lunghi capelli appena lavati che si pettinano al sole. È il villaggio di Buosh, uno dei tanti che fa parte di un progetto governativo: in pratica lo Stato invia in ogni nucleo una sorta di assistente sociale, o educatore domiciliare, per aiutare le donne nell’economia domestica e nell’educazione dei figli.

Via via che il sole si alza la temperatura aumenta, ci siamo rapidamente lasciati alle spalle il freddo del Ladakh e già triboliamo per il caldo. Sulla strada che porta a Daramshala la cittadina di Kullu è animata da un grande mercato dove sembra non si vendano che mele. Le mucche si aggirano indisturbate raccattando golosamente tutto quello che cade dalle ceste. Kullu è anche nota per la lavorazione degli scialli. Nel 1965 è stato importato qui il coniglio d’angora dalla Germania dell’ovest e nella piccola fabbrica si lavora ai telai senza sosta la soffice lana bianca e grigia. Intanto la temperatura si alza, la vegetazione si fa tropicale, compaiono le prime palme già a 1800 metri e le scimmie si aggirano per la strada. Spuntano qua e là le cupole a pannocchia dei templi induisti. Quello di Mani, dedicato a Shiva e Parvati, pare sia sorto sul luogo dove fu concepito Ganesh, il dio bambino dalla testa di elefante.

La strada prosegue tra montagne strette coperte da una vegetazione folta e lucida. Ogni tanto attraversiamo paesini vivaci che si snodano lungo la strada, le botteghe aperte e i venditori seduti all’interno. A Baijnat un altro tempio dedicato a Krsna offre una particolarità: sul lato sinistro c’è una canaletta dove scorre l’acqua. I fedeli ritengono si tratti del Gange, perciò non la attraversano: questo è quindi l’unico tempio in cui si cammina in senso antiorario.

La vegetazione è sempre più rigogliosa e carica di umidità. Piantagioni di tè dalle foglie verdi e lustre punteggiate di donne dai saree variopinti. Hanno mani consumate e visi cotti dal sole, ma la bellezza non riesce ad abbandonare questi volti segnati. Sedute accanto alle ceste piene di foglie appena raccolte, aspettano che arrivi il camion a ritirarle. Si caricano sulla testa contenitori di 13-14 chili, l’uomo sul camion li pesa e li carica, mentre il contabile, maniche di camicia e ombrello, seduto per terra segna il compenso dovuto su un quadernetto. Terminata l’operazione, le contadine saltano sul camion anche loro: salutano agitando le mani e ridono, hanno ancora voglia di scherzare, nonostante la fatica.

Costruzioni in mattoni, traffico, siamo arrivati in prossimità di Daramshala. La strada si inerpica vertiginosamente per alcuni chilometri. Non abbiamo voluto immaginare questa città e ora ci sorprende, così arroccata sulla montagna domina la vallata in cui l’umidità sta spargendo la sua nebbiolina. Sale ancora la strada, finché arriviamo in cima. Il buio scende presto, le bancarelle del mercatino stanno per chiudere, le voci si chetano, gli ultimi bastoncini di incenso finiscono di bruciare. I monaci gironzolano per i vicoli sorridenti, facce larghe tibetane, occhi a mandorla, ruote di preghiera. È l’India che non ha forma e ha mille forme. È la vacuità.

(Surya Resort Pvt Ltd, Dalai Lama Temple Road Mcleodgunj, Tel.: 91.1892.221418 /19/20)

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Daramshala-Amritsar

La giornata si annuncia grigia. Dalle finestre del nostro hotel si vede la strada sottostante, le bancarelle stanno riaprendo. Donne dai lunghi capelli intrecciati vi dispongono rosari, campane tibetane, pietre, talismani. Volti di vecchi dai tratti mongoli solcati dalle rughe, monaci, bancarelle che vendono cibo, l’ultimo avamposto dei rinomati momo, ravioli al vapore tipici della cucina tibetana, declinati nella loro versione vegetariana: qui le mucche sono sacre.

Il tempio del Dalai Lama è relativamente recente, visto da fuori non ha alcun fascino. È stato costruito dopo il 1959, quando il governo tibetano esule ottenne dall’India il permesso di trasferirsi a Daramshala. L’interno invece è quasi commovente. Nella sala principale il grande trono su cui siede il Dalai Lama è circondato da statue del Buddha, di Padmasambawa, delle Tare che si riflettono nelle coppette delle offerte. I fedeli arrivano con i loro doni, biscotti, dolci, frutta secca. I monaci sono seduti in gruppo a studiare, ogni tanto si sente lo schioccare delle mani, a sottolineare le risposte corrette in una delle interminabili dispute religiose. Qualcuno, seduto in disparte, medita a occhi chiusi, un sorriso sereno dipinto sul volto. Fuori, alcuni fedeli pregano alla maniera tipica del buddismo tibetano, sdraiandosi ritmicamente per terra, proni. Sono giovani e vecchi, questi ultimi resi un po’ rigidi dal peso degli anni, ma non si astengono dalla pratica di scivolare per terra strisciando sulle mani, per poi rialzarsi in piedi più e più volte, ripetendo le loro litanie. Lungo la strada le bancarelle sono ormai aperte, la cittadina si è rianimata, ma purtroppo per noi è ora di ripartire. Dobbiamo affrettarci perché gli intoppi e gli imprevisti sono sempre in agguato e puntualmente si manifestano: ora un incidente, ora un controllo prolungato al posto di polizia, facilmente si perde un’ora e si è costretti a compiere deviazioni su strade impervie.

Attraversiamo una zona molto verde, coltivata a riso e mais, lunghe strade alberate. I villaggi sono caotici, il traffico apparentemente senza regole, i sorpassi sembrano un azzardo ma in qualche modo si riesce sempre a rientrare prima di uno scontro frontale. Merito dei 300 milioni di dei che vegliano su di noi? Siamo entrati nella regione del Punjab e in prossimità di Amritsar si moltiplicano gli uomini dal turbante e dalla lunga barba: siamo nella città santa dei Sikh. E qui c’è il famoso Tempio d’oro. Come in tutte le città indiane ci sono i semafori, ma pare che tutti li ignorino. Il caldo è afoso, l’aria appiccicosa. In una sorta di piazza si intravede nel buio una costruzione elegante in marmo bianco. Da una porta ad arco appare in lontananza il bagliore luccicante del Tempio d’oro. Rapidamente ci togliamo le scarpe, le calze, copriamo i capelli (uomini e donne). Compiamo le abluzioni rituali, mani e piedi, ed entriamo al cospetto del tempio dei Sikh. La costruzione in marmo circonda l’area sui quattro lati. Una vasta piscina sacra occupa lo spazio centrale e in mezzo sorge il tempio che, nel buio, sembra emergere da una visione onirica. Ci sono molti pellegrini, Sikh e non, prostrati a terra o immersi nell’acqua, che pare abbia poteri curativi. Mentre ascoltiamo le spiegazioni di Aman un gruppetto di persone si raccoglie tutto intorno a noi. Incuriositi, gli astanti osservano con stupore le nostre facce esotiche e la nostra guida, che pur essendo un Sikh si esprime in una lingua tanto strana! Percorriamo tutto il perimetro dell’edificio e ci disponiamo in fila con i pellegrini lungo la passerella che conduce al tempio. Gli altoparlanti diffondono canti sacri, i ventilatori rinfrescano la folla, che si accalca e spinge. L’interno è suddiviso in tre livelli: al primo sono raccolti i suonatori e al centro un sacerdote legge il Libro sacro. Una copia dello stesso libro, al secondo piano, è notevolmente più grande. Seduti nelle nicchie delle finestre aperte molti devoti pregano. Si sale ancora sul tetto, tra le cupole d’oro massiccio. Anche qui c’è una copia del Libro e un altro lettore, accanto un uomo agita nell’aria un gigantesco piumino. Compiuta tutta la visita, camminando in senso orario, torniamo alla passerella, dove giunge una pesante portantina coperta di fiori freschi: qui viene depositato il Libro, chiuso e avvolto in teli. Quindi il Tomo sacro, accompagnato dai fedeli, viene portato via e riposto in una stanza. La calca è notevole, siamo appiccicosi per l’umidità, bisogna stare attenti a non perdersi in mezzo a questa folla. Percorsa la passerella a ritroso, ecco un uomo dietro una grande pentola che depone nelle mani di ognuno una manciata di halva caldo, il dolce dal sapore capace di evocare ricordi.

Fuori il traffico si è calmato. Le strade sono buie. I rari lampioni illuminano fiocamente cumuli di spazzatura e polvere.

(orario della funzione religiosa: 22,30 oppure 4,30)

(Ista Hotel, molto confortevole, con centro per massaggi ayurvedici, ottimo ristorante, dista 20 minuti in macchina dal Tempio d’oro)

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Amritsar

Abbiamo deciso di tornare al Tempio, stamani. Andiamo presto, finché la temperatura è accettabile e camminare scalzi sul marmo non è un’impresa da fachiri. C’è meno gente rispetto a ieri notte. L’aria è umida e la luce appannata. Il Tempio risplende in mezzo al lago. Ripercorriamo tutto il tragitto, fotografiamo chiunque e qualsiasi cosa. E, a nostra volta, veniamo fotografati. Intere famiglie ci domandano di posare con loro per uno scatto ricordo. All’interno il Tempio è sempre affollato, ma a quest’ora il Libro non c’è. Alla luce del sole stamani si vedono meglio gli intarsi nel marmo bianco: corniole, lapislazzuli, malachite, madreperla. La stessa lavorazione del Tajmahal. La bandiera color zafferano con le spade blu sventola sul tetto. Le litanie sono ripetute senza sosta, cantori e lettori si alternano durante il giorno e la notte. Nel piccolo museo una raccolta di quadri e fotografie illustra la nascita del sikhismo, le dure vicende che hanno consentito a questa casta guerriera di guadagnare spazio nel paese, dalla nascita del movimento fino a oggi, attraverso battaglie sanguinose, guerre e altri momenti drammatici, come il bombardamento del Tempio da parte del governo di Indira Gandhi nel 1989, che costò la vita a molti fedeli ma anche allo stesso premier, avvelenato per il sacrilegio dalla sua Guardia Sikh. Oggi per fortuna le tensioni con questa minoranza fiera e molto ben introdotta nell’establishment indiano sono finite.

Fuori il traffico si è intensificato. L’India ti viene addosso, si muovono tutti insieme, tutti parlano a voce alta, con questa pronuncia strana e cantilenante, con questo modo particolare di arrotolare la erre. Grovigli di cavi elettrici stesi da un palo all’altro come liane in una foresta. Risciò, moto, carretti e mucche. L’India si muove di un moto perpetuo, avvolta in un calore tropicale.

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Amritsar-New Delhi

Volo Amritsar-Delhi, arriviamo all’ora di pranzo, giusto in tempo per mangiare un panino (speziato pure quello) e sfruttare quest’ultimo pomeriggio per un’immersione nella vecchia Delhi. Salutiamo la nostra preziosa guida, Aman, con la promessa e la speranza di rivederlo presto e ascoltare ancora i suoi racconti sulle molteplici religioni dell’India, che ci hanno aperto la mente su questo mondo tanto complicato e ricco: 330 milioni di dei non sono uno scherzo. Lo lasciamo a un incrocio con Connaught place, il traffico è caotico e mentre ci allontaniamo in direzione della metropolitana il suo turbante si perde tra la folla.

Scendiamo nel tunnel della Metro, è tutto nuovo e funzionale, pulito e veloce, impossibile perdersi e comunque c’è sempre qualcuno disposto a fornire indicazioni agli stranieri. Tre fermate tra Rajiv Chowk e Chandni Chowk (linea gialla, 8 rupie). Piove un’acquetta tiepida che rapidamente allaga le strade. Siamo nella Old Delhi. Vicoli stretti, auto, moto, risciò. L’India si muove tra il fango e la spazzatura, tra i vapori del cibo cotto in strada e le collane di fiori da offrire al tempio. Spuntano qua e là sul brulicare della folla, sopra i soliti intrecci improbabili di cavi elettrici, i tetti di importanti edifici: un tempio Sikh, una moschea, il Forte Rosso.

Affittiamo un risciò per 100 rupie all’ora e ci inoltriamo in vicoli ancora più stretti. Quartieri dedicati come in un suq: i gioiellieri, i sarti, tutti seduti nelle loro piccole botteghe guardano fuori verso la strada dove scorre la vita quasi in un tumulto. È inspiegabile come si riesca a passare in questi spazi angusti senza incidenti. Una breve visita alla Jiama Masjid, la moschea del venerdì (ingresso gratuito, 200 rupie per le foto): tutta in mattoni rossi, con la sua grande fontana al centro. Sotto il porticato intere famiglie sono sedute a chiacchierare, a dormicchiare. Bisogna fare in fretta, tra poco inizierà la preghiera.

Eccoci nuovamente nell’intrico dei vicoli. Talvolta in un angolo si aprono piccoli tesori, come un tempio jiainista tutto dorato, e non si capisce come possa esistere uno spazio così ampio in questo formicaio. Gli uomini del risciò pedalano senza sosta, come in un lungo piano-sequenza sfilano il quartiere dei sarti, dei librai, poi quello islamico: qui le bancarelle espongono dolci leccornie e frutta ben allestita. Un po’ oltre, la zona delle riparazioni delle auto e di tutto quanto si muove per strada. Negli angoli più infimi si incrociano sguardi di mendicanti, mutilazioni e malattie di ogni genere, conosciute e non. Volti affamati e negozianti ben pasciuti che sorseggiano una tazza di tè verso le 17, come hanno appreso dalla dominazione britannica. Impiegati usciti dall’ufficio affollano friggitorie in cui i padelloni sfornano cibo a pieno regime. Agli incroci restiamo bloccati per lunghi minuti, totalmente incastrati, dal groviglio non riesce a passare neanche uno spillo. Clacson che suonano impazziti. Gli uomini dei risciò dipendono in qualche modo dai mercanti di stoffe e souvenir, hanno il compito di catturare gli stranieri e portarli al negozio del padrone, perso in qualche vicolo di questo dedalo in cui non ci si può orientare. Ci restano male quando ci rifiutiamo di entrare nell’ennesimo bazar delle sete. Concordiamo di dare loro qualche rupia in più, così il loro guadagno quotidiano sarà più o meno lo stesso. La pioggia è cessata, il cielo si sta facendo rosa al tramonto: la giornata è finita, torniamo indietro. Nella zona degli alberghi la gente è chiaramente benestante, passeggia sotto larghi viali alberati: solo il traffico è lo stesso ovunque. L’albergo che occupiamo fino alla partenza è l’esemplificazione del divario incredibile, sempre più grande, che connota non solo le caste, ma strati sociali sempre più ampi della popolazione. Bisogna rinunciare a capire, almeno con i nostri parametri occidentali, insufficienti qui. L’India è tutto e il contrario di tutto. È un brulicare di vita e di speranza che non si spenge nemmeno nel fango, ci sarà sempre un santo cui votarsi. Di notte il clamore un po’ si calma, negli alberghi di lusso scendono donne dai saree elegantissimi, avvolte in profumi di marca, mentre lungo i marciapiedi dormono in fila gli intoccabili. Dalle riviste di carta patinata sorride con aria intrigante Shah Rukh Khan, il nuovo divo di Bollywood che sta raccogliendo l’eredità di Amitab Bachan. E domattina tutto ricomincerà da capo.

(Le Meridien Hotel, Windsor Place Janpath te.: 91.11.23710101,camera collettiva a disposizione prima delle partenze notturne)

 

INCONTRI

Srinagar

Lungo il fiume le belle dimore di legno con i tetti a punta sono abbandonate e ancora diroccate, ricordo della guerra e delle tensioni sempre presenti. La nostra guida è induista e vuole mostrarci gli esiti di questa triste storia: ovviamente per lui i maggiori responsabili sono i musulmani. Un piccolo tempio dedicato a Krsna è circondato da un presidio militare. Un ufficiale dell’esercito indiano ci fa entrare attraverso un cancello di ferro, all’interno soldati; apre una porticina in legno che dà su un cortiletto, dove un uomo sta sistemando alcuni festoni dorati: stanotte si festeggia la nascita di Krsna. In una piccola stanza, seduto a gambe incrociate su una sorta di branda, c’è un santone, le braccia segnate da un’ustione. Accoglie tutti salutando con un “Hari Krsna” e distribuendo sorrisi. Ci invita a sedere per terra, ci offre un fresco sciroppo di rose. Nella stanza accanto, un lingam salvato dal tempio distrutto, rappresentazioni della divinità nelle sue molteplici manifestazioni, perfino una piccola culla che lo ospiterà simbolicamente dopo la sua nascita, quasi un richiamo alla mangiatoia in cui nacque Gesù. Il santo ci chiede di seguirlo nella preghiera, ripetendo con lui formule sconosciute. Al termine ci offre frutta da mangiare, dolci spicchi di mele e di pere. Quando usciamo dal tempio l’uomo in cortile ha quasi terminato di appendere i festoni, che ora brillano al sole. La nostra guida non verrà stasera per la festa, teme che potrebbero esserci disordini per strada.

Dalle numerose moschee giungono canti dedicati ai malati, spiega il barcaiolo che ci sta riportando alla nostra house boat. Lui è musulmano e ovviamente ha un punto di vista diverso da quello della guida. La festa di Krsna stasera? Lui non ne sa niente. Sulle facciate delle piccole moschee troneggiano i ritratti degli ayatollah iraniani. È facile, in condizioni di confini così fragili e precari, che i pensieri forti e risoluti dei paesi confinanti si facciano largo cercando di conquistare la fiducia di un’etnia piuttosto che di un’altra. E sembra impossibile, seduti su questa shikara in mezzo al lago, tra lo sciabordio dei remi a forma di cuore, che questo paradiso sia stato sconvolto non tanto tempo fa e ancora la brace covi, pronta a trasformarsi in fuoco.

Dalai

Lasciamo Leh stamani. Ci aspettano lunghi trasferimenti non troppo comodi, a quanto pare. Appena fuori città c’è un grande prato bellissimo che termina con un piccolo tempio e, nascosta tra gli alberi, una bella dimora: è una delle residenze del Dalai Lama. Davanti al grande arco in pietra da cui si accede alla residenza stamani c’è un gruppetto di persone, fermo in attesa.

Le guardie fanno segno alle macchine di passare. La nostra guida parlamenta un po’ con uno dei militari, poi ci fa scendere. Vediamo gli autisti correre stringendo tra le mani le sciarpe bianche, simbolo del buddismo tibetano, un sorriso che va da un orecchio all’altro. Arrivano pure i bambini delle scuole e si dispongono tra noi. Sta per arrivare il Dalai Lama. Preceduto da tre auto della polizia, arriva su una jeep con il consueto sorriso, la mano alzata a benedire tutti gli astanti. La gioia è collettiva, vecchi e bambini sono emozionati e commossi, perfino l’austera guardia sorride felice e accetta di posare per una foto di gruppo.

Ancora increduli riprendiamo la strada verso Manali: impiegheremo due giorni a raggiungerla, attraversando la Transhimalayana,

Autisti

Una frana costringe tutte le auto che compongono la nostra carovana a fermarsi, in attesa che la strada venga liberata. Siamo alla fine della Transhimalayana, abbiamo lasciato il Ladakh e siamo entrati nell’Himachal Pradesh. Un venditore di tè e un uomo che arrostisce pannocchie sono posizionati strategicamente: compaiono con un tempismo invidiabile, neanche avessero una mappa dei lavori in corso. O forse è solo una grande abilità nell’arte di arrangiarsi. In questi casi, in India, si scende tutti dalle auto, civili e soldati, e si finisce col fraternizzare, sgranocchiando calde pannocchie e scattandosi foto reciprocamente. Poi la strada si libera e si riparte. Una curva dopo l’altra, poi ancora uno stop: stavolta è la polizia, che ferma tutte le auto turistiche. Ce l’hanno fatta. Ogni autista deve sborsare una multa equivalente a circa 40 euro: è un bel bottino, le macchine sono cinque! Questo accade perché il ministero degli Interni non rilascia tutti i permessi di transito richiesti dagli autisti professionali, che per muoversi da uno Stato all’altro dell’India hanno bisogno di questi lasciapassare. Gli autisti, naturalmente, si muovono lo stesso: se poi saranno fermati, pagheranno. In questo modo si consente ai poliziotti di arrotondare lo stipendio, alimentandone la corruzione. Le agenzie turistiche lo sanno, stanno al gioco e rifonderanno gli autisti dell’eventuale multa. Probabilmente alla fine il surplus di spesa si scaricherà sulle tasche dei turisti, che pagheranno cifre più alte del dovuto nel noleggio dell’auto. Ma in fondo va bene così.

Confini

Amritsar è vicina al confine con il Pakistan – mezz’ora di macchina, traffico permettendo – e si può assistere al cambio della guardia (ore 18,30). Ogni evento in India è seguito da folle di partecipanti e qui, dalla parte indiana del confine, è stato costruito una specie di stadio: gli spalti sono pieni. Le guardie, tutte altissime e fiere, dirigono la gente a colpi di fischietto e gesti categorici. Sotto il sole fa un caldo infernale: gli armati si asciugano furtivamente il sudore, cercando di non rovinare l’immagine prevista dal cerimoniale. A ovest, in territorio pakistano, analoga scenografia: il sole sta tramontando, ma sugli spalti poche persone. Musica da entrambe le parti: brani diversi, ovviamente, e contrastanti, sparati ad altissimo volume. Da questo lato si staccano le note della colonna sonora del film “The millionaire” e un gruppo di donne inizia a ballare: Bollywood non racconta altro che la vita reale, questa è l’India. Suonano gli inni nazionali, partono le guardie con passo marziale, esasperato per l’occasione. I cancelli sul confine si aprono, le scritte PAKISTAN e INDIA, finora sovrapposte, si leggono adesso distintamente. Dall’altra parte guardie altrettanto alte, persino l’uniforme è molto simile, cambia solo il colore. Il cerimoniale identico, anzi studiato con la controparte ufficialmente ostile. È il momento dell’ammainabandiera. Una regia perfetta fa tramontare il sole quando le due bandiere si incrociano sulle funi tese. Vengono raccolte, piegate e riportate ciascuna dalla propria parte. Grida della folla, slogan nazionalisti e pugni levati al cielo. I cancelli si chiudono, le scritte sono nuovamente sovrapposte. La gente, trattenuta finora dalle guardie, dà libero sfogo alla sua eccitazione, correndo verso i cancelli. Foto ricordo con gli armigeri in alta uniforme, tutti bellissimi. Gli spalti si svuotano. La cerimonia sceneggiata è terminata. Sul confine non resterà più nessuno fino a domani, quando il rito si rinnoverà. Welcome to India, la più grande democrazia del mondo, recitano i cartelli sulla strada del ritorno. Un monumento con due mani incrociate ricorda il sacrificio di un ragazzo, caduto in questo luogo nel 1947, ma è in controluce e nessuno lo fotografa. Il confine vero è un po’ più indietro: c’è solo una squallida recinzione in filo spinato arrugginito, mentre un soldato in mimetica, molto meno scenografico dei suoi colleghi in alta uniforme, viene immortalato dagli obiettivi dei fotografi più incalliti. Al parcheggio profumo di frittelle e popcorn, cartoline e souvenir, il cd della cerimonia, come in una sagra di paese.

Polvere, auto, si torna ad Amritsar nella sera calda. Davanti a noi una fila interminabile di tuk-tuk carichi all’inverosimile riporta tutti a casa.