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Namibia dal Diario di Fulvio Bertamini


       

 

Dal Diario di Fulvio

Tour in Namibia Essence of Namibia in Mobile safari

1. Arrivo a Windhoek
Luce nitida, aria frizzante, cielo blu, aria calda e secca, spazzata da un venticello che giustifica una delle interpretazioni relative al nome della capitale namibiana: secondo alcuni significa “angolo del vento”. Giungere qui all’inizio del weekend significa garantirsi un tour nel deserto. Non quello di sabbia, però. Il centro, infatti, è desolatamente vuoto: tutti i locali e gli uffici chiusi. Pare che i namibiani trascorrano il sabato e la domenica all’interno delle loro township e questa che stiamo percorrendo, con la cattedrale in stile bavarese (ci si arriva percorrendo la Fidel Castro avenue…), è il quartiere del business. Il nostro piccolo gruppo fa fatica a trovare un ristorante dove sgranocchiare qualcosa: alla fine capitoliamo in una steak house stile tex-mex e ci tuffiamo sulle costolette di maiale, le terrificanti spare-ribs, che ci trasformano in un attimo in cavernicoli (l’unico modo di mangiarle è usando le mani: un macello stile 2001 Odissea nello spazio). Va forte anche un’altra pietanza tipicamente africana: lo stinco al forno con patate. Una birrona aiuta a vincere le prime, inutili perplessità: il paese non ha forse avuto una (breve) colonizzazione tedesca? A questo punto vorremmo chiudere con una fetta di torta di mele con panna: non è presente nel menu, ma so già che la troveremo on the road. E sarà bellissimo.

2. Windhoek-Waterberg
La strada si srotola come una fettuccia. Siamo sul camion attrezzato a pullman stile Overland e c’è da godere. Il panorama è già bello e l’asfalto è solo una striscia nel bush, attorno alla quale trotterellano famiglie di facoceri, punteggiata dai rossi pinnacoli dei termitai. Alcuni solo altissimi, oltre due metri: sono costruiti in questo modo per evitare che la sabbia trasportata dal vento ne ostruisca facilmente l’entrata. Le termiti impastano il fango con l’acqua per realizzare queste magnifiche sculture e ciò significa una cosa sola: dove c’è un termitaio, c’è acqua. Arriviamo sull’altopiano del Waterberg (la montagna dell’acqua, appunto) che è pomeriggio: si tratta di un circo roccioso di arenaria alto 150 metri, lungo chilometri e chilometri e sovrastante una pianura sterminata. La salita alla vetta (si fa per dire) è piuttosto faticosa: si salta da una roccia all’altra, come sugli scogli della spiaggia. Alcuni massi sono nobilitati da coloratissime colonie di licheni: azzurri, rossi, gialli. Incrociamo una procavia: sembra una marmotta, ma le analisi del suo dna hanno rivelato che sta alla base evolutiva… dell’elefante! Quando arriviamo in cima, è quasi tramonto: la vista sul nulla circostante è impressionante. Sembra di essere sull’altopiano etiope e probabilmente il Waterberg, antichissimo, risale a quel periodo geologico.
La discesa avviene all’imbrunire. Appena giunti al campo tendato, sotto una bella luna quasi piena, ci aspetta la cena. Gli invadenti babbuini che avevano cercato di spazzare via la nostra merendina per fortuna si sono ritirati a dormire sugli alberi.

3. Waterberg-Etosha National Park
Partiamo all’alba per raggiungere nel pomeriggio il parco Etosha. I babbuini, appunto: hanno appena spazzolato i bidoni del campo, in un grande frastuono. A mezza via, approfittiamo di una sosta carburante per familiarizzare con alcuni venditori di corde e matasse. Curiosi, ci chiedono da dove veniamo e quando si sentono rispondere “dall’Italia”, ci guardano senza capire. Allora, una matassa a fianco dell’altra, ricostruiamo sull’asfalto la cartina geografica dell’Europa e dell’Africa. Con qualche approssimazione, evidentemente. Se non altro, la lezione di geografia lascia i namibiani divertiti.
A pranzo sostiamo vicino al lago calcareo di Otjikoto, specchio d’acqua profondissimo che racconta una storia curiosa: custodisce armi (e ricchezze) dei tedeschi in fuga dagli inglesi, alla fine della Prima guerra mondiale. La sconfitta costrinse il Kaiser ad abdicare a ogni velleità coloniale in Africa, ma piuttosto che lasciare il bottino agli odiati britannici, i teutonici gettarono tutto nel lago. Un cartello enumera la quantità di cannoni e armi depositate sul fondo, insieme con gioielli e altri tesori. Molto è stato ripescato. Il resto è sorvegliato, da quasi un secolo, da spettacolari cespugli di aloe.
Chilometri di strada liscia in mezzo al bush e poi, come dal nulla, spunta la porta d’ingresso del parco Etosha. A darci il benvenuto è un’elegante giraffa, intenta a divorare con le possenti mandibole una serie di arbusti spinosi. All’ingresso del campeggio Namutoni, invece, è un gruppo di manguste a gironzolare tra le nostre gambe. Sembrano animali domestici, ma sono temibili predatori. I peggiori nemici dei serpenti.
Partiamo per il primo safari che è quasi il tramonto. Le strade bianche sono percorse da jeep e camion impegnati in una lenta marcia alla ricerca di animali. All’orizzonte, improvviso, si staglia un polverone. Che accade? Nell’aria echeggia la risata agghiacciante delle iene. Siamo di fronte a un branco di circa 30 esemplari che ha appena ucciso un kudu, elegante erbivoro grande come un cervo. Le bestiole si azzuffano, urlano, si allontanano digrignando i denti, con brandelli di carne tre le fauci. Sono tozze, il collo largo, il pelo maculato e arruffato, il muso sporco di sangue. È una scena da girone infernale. Intorno a loro, gironzola qualche timido sciacallo: attenderà il suo turno per cibarsi dei resti. Poco più in là, un rinoceronte nero strappa grossi cespugli, in totale tranquillità, mimetizzandosi perfettamente con lo sfondo, nel buio incombente.

4. Etosha Park/secondo giorno
C’è di bello che il parco è così grande che per spostarsi da un campo tendato all’altro ci si impiega l’intera giornata. In altri termini: è safari continuo. La nostra guida, Elago, ha la vista di un falco e scruta per noi il bush, alla ricerca di altre specie animali. Siamo fortunati: assistiamo da vicino al pasto di un rinoceronte, specie a rischio perché cacciata per il suo corno, utilizzato nella medicina cinese. Gironzoliamo attorno all’Etosha Pan, lago salato perfettamente rotondo, di un candore abbagliante, frequentato da branchi di zebre, impala, gnu (ma quanto sono brutti!), springbok e altri erbivori. E poi andiamo a lezione di elefante.
Vedere da vicino usi e costumi dei simpatici pachidermi è uno spasso. Il loro rapporto con l’acqua è fortissimo. Giunti a una pozza, gli elefanti per prima cosa si dissetano. Secondo step: il bagnetto. Prima lentamente, poi con sempre maggiore decisione, si immergono, cospargendosi di fango. Terzo e ultimo passaggio: la cipria. Uscendo dall’acqua, raccolgono con la proboscide manciate di polvere, la lanciano per aria e attendono che si depositi sulla loro pelle. In questo modo il trattamento di bellezza della loro delicatissima epidermide è completo.
La luce si abbassa e quando arriviamo al secondo campo, Okaukuejo, è il tramonto ad accoglierci. Alla pozza, le giraffe disegnano forme geometriche incrociando colli e zampe. I loro zoccoli risuonano sulle pietre. È l’unico rumore: gli altri animali si muovono nel silenzio più assoluto. Arriva una leonessa, che scende a bere sotto gli occhi attenti e allarmati di una giraffa, attardatasi alla pozza. Il raccoglimento con cui i visitatori seguono la scena ha un che di religioso. La giraffa è immobile, pronta a scalciare con i suoi zoccoli temibilissimi. Ma la leonessa non ha fame: beve e con nonchalance si allontana nella notte. Adesso anche la giraffa può recuperare il suo branco. La tensione si stempera, mentre piccoli, timidi sciacalli gironzolano fra le tende in cerca di cibo. Sono belli come lupi, ma di taglia molto più piccola: l’aria mite, timorosa. Velocissimi, non fai in tempo a guardarli che si sono già dissolti nella notte.

5. Etosha Park/terzo giorno
Oggi è la giornata dei leoni. Prima osserviamo tre maschi, probabilmente fratelli, gironzolare con l’aria piuttosto imbelle nelle prime ore di luce della giornata. Pare che riposino ogni giorno 22 ore… e questi hanno l’aria di essere già prossimi al pisolino. Poi incrociamo una leonessa mentre, con fiero cipiglio, guadagna la strada verso la pozza dove ha lasciato la sua prole, due maschi e due femmine, a trastullarsi. Ed è bellissimo notare come tutti gli erbivori, al suo passaggio, si immobilizzino terrorizzati, o fuggano a zampe levate. Infine, ecco ancora un vecchio, grande leone schiantato dal sonno nei pressi di un grande cespuglio di rovi. 
Ecco un’altra pozza. I grandi erbivori sono radunati insieme. I kudu dalle corna attorcigliate fanno il bagno e poi cedono il passo agli orici dalle corna dritte come lance. Sono così alti che per bere si devono inginocchiare. Springbok e impala scivolano via con passo leggero, gli struzzi ancheggiano con la loro andatura saltellante. Poi, verso il tramonto, ritorniamo al campo. Il sole s’infiamma e il caldo svanisce. I grossi branchi di erbivori si muovono adagio, mentre dall’alto degli alberi gli uccelli scrutano l’orizzonte. Intorno all’acqua, la sera, ecco ancora un raduno di giraffe e un solitario rinoceronte. Gli sciacalli ululano gironzolando fra le tende, ormai quasi domestici.

6. Etosha Park-Epupa Falls
Un ruggito prolungato, seguito da 4 o 5 più brevi, è il primo segnale orario della giornata: significa che tra poco sorgerà il sole. Bisogna alzarsi e preparare i bagagli, smontare tutto e ripartire, come quasi ogni giorno. Oggi ci attende un lungo percorso: 500 km fino alle Epupa Falls, nel Nord, al confine con l’Angola. Per i primi 200 km restiamo all’interno dell’Etosha, e sono 200 km di animali che si risvegliano nella luce del mattino. Poi un cancello, una sbarra di ferro che si alza e addio parco. Siamo di nuovo sull’asfalto.
Via. Il paesaggio, gradualmente, cambia, le quinte sono chiuse da montagne verdi e tondeggianti, perse in una luce azzurrina. La strada si fa sterrata, sale e scende, qua e là maestosi baobab alzano i loro rami secchi al cielo. Entriamo nel territorio degli Himba e degli Herero. All’improvviso, un’oasi di palme e un fiume, il fragore delle cascate è la colonna sonora del camping Omarunga. La scia rossa del sole al tramonto tremola sulle acque del fiume Kunene, sulla sponda opposta le montagne boscose marcano l’inizio di un’altra nazione: l’Angola, paese amico della Namibia, che aiutò i combattenti dello Swapo – oggi la principale forza di governo a Windhoek, prevalentemente di etnia owambo – a riconquistare la libertà, scacciando l’invasore afrikaans. Niente sciacalli o leoni che ci diano la sveglia, domattina. Il fiume è infestato da silenziosi, giganteschi coccodrilli. Tra noi e loro, un paio di metri di sponda fluviale, ma pare sia più che sufficiente per garantirci l’immunità. Ci dobbiamo credere per forza.

7. Epupa Falls & dintorni
I villaggi qui intorno sono popolati dagli Himba. Capanne di adobe – la miscela di fango e paglia di quasi tutta l’architettura africana – circondano un grande recinto, vuoto oggi poiché le greggi sono al pascolo con gli uomini, che da tempo immemorabile praticano la pastorizia. Nel piccolo nucleo abitato, dunque, solo poche donne e qualche bambino. Un pentolino di polenta bianca borbotta sulla brace. Ci viene incontro la capo villaggio: è la donna più anziana, intorno a lei le figlie e un grappolo di bambini, in parte suoi, in parte nipoti.
Le capanne di fango e sterco garantiscono una certa frescura e l’isolamento dagli agenti atmosferici esterni. Siamo invitati a visitare l’abitazione principale. All’interno, i vestiti per il matrimonio e le pesanti acconciature di pelle coperte di ocra sono appese alle pareti. Gli Himba non chiedono denaro, vendono però i loro manufatti e gradiscono ricevere viveri: sacchi di farina di mais, zucchero, olio. I bambini più piccoli stanno appresso alle madri, succhiando il latte di tanto in tanto.
Il tempo si è fermato per questo popolo, mentre per noi la mattinata è scivolata via in fretta. Lasciamo le donne e i bambini raccolti intorno alla capanna adibita a cucina, un ultimo saluto e attraversiamo la soglia del villaggio, delimitata da due grandi baobab. Siamo di nuovo in strada.
Al campo, il fiume scorre tranquillo, le cascate invece producono un fragore costante. Epupa in lingua himba significa “fiume che respira”: il corso del Kunene, che un tempo alimentava il lago Etosha, ha cambiato repentinamente direzione dopo bruschi movimenti della crosta terrestre e ora sprofonda in un fronte di acqua verde-azzurra prima di prendere la via del mare. La notte porta un cielo stellato che lascia senza fiato: la via Lattea pare un unico fascio di luce. Il campo, invece, è immerso nel buio.

8. Epupa Falls-Kaokoland
La sveglia suona molto presto, come sempre. In questo viaggio raramente ci capiterà di alzarci dopo le sei. Oggi ci attendono 350 km di trasferimento nella regione del Kaokoland. Il tragitto è spettacolare, per quanto polveroso e sconnesso. Maestosi baobab completamente spogli fiancheggiano la strada, i più antichi sembrano pietrificati. Il cielo azzurro ci introduce al Kaokoland, le montagne intorno annunciano il deserto roccioso del Namib. In questa terra estrema e quasi totalmente arida la luce del sole muta continuamente il colore delle montagne con il passare delle ore.
Oggi è una giornata di trasferimento, facciamo una sosta di tanto in tanto per sgranchirci le gambe e scattare qualche foto. Giungiamo al camping che è quasi tramonto. Il campo è immerso nel nulla, solo montagne e un piccolo torrente. Non c’è corrente elettrica e l’acqua viene scaldata con suggestiva caldaie a legna. Nel silenzio più totale la via Lattea ci piomba addosso luminosa, attraversando il cielo, con il suo manto bianco.
Il campeggio è gestito dalla comunità locale e la sera un gruppo di paesani ci propone un ascolto di canti tradizionali a cappella, le voci meravigliose. Alcuni sono gospel cantati la domenica a messa: la gran parte della popolazione, infatti, è cristiana di rito luterano. Poi, quando il coro se ne va, un’altra magia: le stelle impallidiscono, il monte di fronte al campo si schiarisce come fosse giorno e un’immensa luna si affaccia a illuminare la notte.

9. Kaokoland-Damaraland
Il villaggio situato a pochi chilometri dal campo non ha nulla di rimarchevole. Non ci sono le belle capanne degli Himba, né le curiose case in stile bavarese delle città: solo baracche di fango con il tetto di lamiera e un piccolo cortile. E i bambini, ovviamente, sono in strada già alle 7.
La strada, ancora una volta, è spettacolare: bassi arbusti verde smeraldo e montagne rosse sullo sfondo. Queste terre percorse da popoli nomadi nascondono antichissimi, preziosi graffiti che le tribù dei Bushman realizzavano per segnalare la presenza di selvaggina da cacciare e l’ubicazione delle pozze d’acqua. Ora i Bushman non ci sono più, ma restano i loro petroglifi a Twyfelfontein, perfettamente incisi nella roccia.
Gli unici animali sopravvissuti in queste lande aride sono le zebre e gli elefanti di montagna. Le forze della natura nei millenni hanno modellato il profilo delle rocce e il loro colore. E l’impeto dell’acqua ha creato curiose formazioni basaltiche simili a canne d’organo, mentre la temperatura elevata – fino a mille gradi – cento milioni di anni fa, nel Gondwana o Pangea, prima che nascessero i continenti, ha fuso i minerali presenti nella sabbia, creando i rilievi scuri come la pece delle Burnt Mountain.
Sostiamo al campeggio di Uis, ai margini del centro abitato. Sarà l’unico camping di tutto il viaggio poco significativo. Anche la fauna è del luogo: non più sciacalli o coccodrilli, ma qualche gatto magro e lungo come la fame, mentre il freddo si fa pungente e le zanzare si rifugiano a centinaia nell’unico luogo conforme al loro habitat tiepido e umido: il bagno. Ci si lava con il naso per aria, non si sa mai.

10. Uis-Swakopmund
Quasi impercettibilmente il paesaggio comincia a diventare piatto. La strada corre tra due strisce di sabbia chiara, quella delle dune e quella della spiaggia, mentre all’orizzonte una cortina di nuvoloni grigi annuncia il mare e l’umidità, generata dallo scontro fra la corrente antartica del Benguela e l’aria calda del deserto.
Sulla costa, in prossimità di Cape Cross, il vento porta le grida di una nutrita colonia di otarie. La maggior parte è sulla spiaggia a ronfare, i cuccioli giocano o si azzuffano, qualche elemento più coraggioso si avvicina al sentiero degli uomini e si sporge in cerca di cibo. Le onde lunghe e grigie dell’Oceano Atlantico si inseguono infrangendosi al largo.
La cittadina di Swakopmund, fiorente all’epoca della colonizzazione tedesca, ha conosciuto negli anni un certo declino, soppiantata dal vicino porto di Walvis Bay, il secondo scalo marittimo dell’Africa australe, fondato dagli inglesi. Oggi però la città sta rilanciandosi grazie al turismo e al suo clima mite tutto l’anno. Stradine diritte e ordinate, architettura bavarese, un bel lungomare battuto da un vento impetuoso, palme e araucarie, un lungo molo in scuro legno marino che si protende nell’oceano, affollato di pescatori. Mercatini di artigianato e piccoli laboratori dove si lavorano le pietre dure, ristorantini e guesthouse. Alloggiamo in una di queste, dentro un vero letto, ma la stanza è così umida che ci fa rimpiangere la tenda. Giusto per non perdere l’abitudine.

11. Swakopmund
Uova, bacon e due tazze di caffè per scaldarci bene lo stomaco. Per il resto, abbiamo indossato tutto quello che c’era in valigia, guanti compresi, e siamo pronti per la gita in barca che parte dal porto di Walvis Bay. Fa freddissimo. Appena lasciato l’attracco, un’otaria semidomestica di nome Bubble sale sulla barca, attirata dal pesce fresco, elargito in cambio di alcune foto in posa con i turisti. Pellicani, gabbiani e cormorani si comportano nello stesso modo: è una specie di circo degli animali acquatici. Spunta il sole e ci scalda le ossa intirizzite, mentre la navigazione procede fra delfini e altre otarie giocherellone, circumnavigando spiagge coperte di uccelli marini.
Al pomeriggio, Swakopmund è molto vivace. I negozi di artigianato sono aperti, così come le konditorei che deliziano la clientela con favolose torte della tradizione tedesca, da gustare seduti ai tavolini, al sole di questo pomeriggio di fine inverno. In fondo alla strada principale, Sam Nujoma avenue, si trova anche il laboratorio di Karsten, un artigiano dai tratti nordici che fabbrica meravigliosi gioielli incastonando le pietre dure in gusci di resina morbidamente modellati e sigillati con una chiocciola. Se capitate qui, non mancatelo: una tappa e un acquisto sono d’obbligo.

12. Swakopmund-Deserto del Namib (350 km)
Le nuvole assediano Swakopmund, come sempre all’alba. Fino al porto di Walvis Bay la strada asfaltata corre parallela alle onde dell’oceano, poi la sabbia invade la carreggiata fino a inghiottirla e il paesaggio si fa lunare, attraversando il canyon di Kuiseb. Strada facendo non incontriamo anima viva, né villaggi. La linearità del percorso è interrotta solo da un cartello che annuncia l’attraversamento del Tropico del Capricorno. Finché ci imbattiamo nel piccolo agglomerato di Solitaire, dove riposano in pace le carcasse arrugginite di alcune belle macchine d’epoca, disposte ad arte nello spiazzo tra il distributore e la konditorei. Pit stop con torta di mele: davvero interessante.
Ed ecco apparire i contrafforti del deserto del Namib, formazioni rocciose dipinte con tutte le sfumature del rosso e del giallo. La strada stessa è rosea e il verde delle scarse acacie diventa smeraldo, mentre i bassi arbusti del bush sono lucenti come l’oro. Il tramonto sulle dune gioca con i colori e le luci e, appena il sole cala, si alza una brezza fresca che in breve diventa un vento freddo. Al campo, le tende sono poste in cerchio sotto una grande acacia dai rami bassi, mentre gli springboks, eleganti e leggeri, brucano a pochi metri da noi, indisturbati. Bellissimo.

13. Sossusvlei
La notte fredda ha ceduto il passo a una falce di luna che rischiara appena i sentieri intorno al campo. Partenza alle 5 per ammirare l’alba nel deserto. Eccoci al cospetto della Duna 45, la più alta del mondo. Il cielo è nuvoloso: l’oceano ha spedito fin qui la sua umidità, che si scontra con il calore del deserto. Ma quando il sole riesce finalmente a bucare le nuvole, è come assistere all’alba del mondo. Tutto si colora di azzurro, verde e rosso. Scalare la duna è una grande fatica, i passi sprofondano e la sabbia appesantisce le scarpe. Bisognerebbe procedere senza calzature, ma fa troppo freddo. In compenso, la discesa, compiuta a grandi balzi, regala un grande senso di libertà.
Più avanti, tra le dune di Sossusvlei, si nasconde la pioggia impalpabile e pungente, come rugiada portata dal vento. Grandi acacie pietrificate da centinaia di anni giacciono in mezzo alla sabbia, posate su un letto di minerali che disegnano un tappeto bianco, essiccato, laddove un tempo c’era l’acqua. Protendono i rami secchi al cielo, disegnando arabeschi neri sulle dune rosse.
Infine il cielo, finalmente, si apre e le nuvole basse sfiorano la sabbia, che il vento caldo ha spinto fin qui dal deserto del Kalahari e che la corrente gelida dell’Antartico ha bloccato, sedimentandola in questa striscia di terra. La luce rimbalza nel canyon di Sesriem, piuttosto corto (3 km) ma profondo 30 metri: in questa fase della stagione è privo di acqua, dunque ci concede una gradevole passeggiata, gli occhi rivolti al cielo azzurro, lassù in alto.
Il tramonto è degno del gran finale di un film. Nella notte gelida, spazzata da un vento incessante, le stelle occhieggiano fra i rami della grande acacia che ripara le nostre tende, trasformandola in un albero di Natale. Stasera fa così freddo che nemmeno il falò riesce a scaldarci.

14. Namibia-Italia
Ed è giunto il momento del ritorno. Salutiamo l’Africa, che ci regala un’alba strepitosa e freddissima. La nebbiolina vaporosa si distende tra le montagne e la terra, il cielo è terso. Due orici attraversano la strada con un balzo, un branco di gnu placidamente osserva transitare il nostro camion. Sorge il sole e le montagne dai mille colori si scaldano sotto i suoi raggi, la paglia brilla dorata. Il vento spazza l’aria, secco e ormai tiepido, quando arriviamo a Windhoek per salire sull’aereo che ci riporterà a casa.

Namibia dieci e lode: è stato un grande viaggio